Daniel Pennac intervistato dalla community di Anobii

Come promesso, Daniel Pennac ha risposto alle domande della community di Anobii. Ed ecco le sue risposte.

A quasi venticinque anni dall’avvio del ciclo di Malaussène – saresti ancora in grado di descrivere una integrazione di culture così riuscita? (Capobanda)

Vivo ancora a Belleville. E penso che potrei ancora descriverla più o meno nello stesso modo, giacché ancora oggi Belleville è immune dai conflitti razziali. La gente, le culture, le razze, le religioni vi convivono più o meno armoniosamente. Non è un quartiere alla deriva o all’abbandono: a Belleville sopravvivono ancora molti mestieri e attività. E’ un quartiere vivo dove si può vivere senza problemi. Non bisogna fare tre chilometri per comprare il pane o scavare sottoterra per trovare un camembert. Tutto ciò rende la coesistenza più facile.

Per me e per moltissimi altri lettori Pennac è Malaussene. Ma tu sei contento di aver dato vita a Malaussene, o il personaggio si è mangiato l’autore? (Tittirossa)

Sì, certo, sono contento. E’ molto riposante avere un personaggio come Malaussène, che in fondo lavora al posto mio.

La tua Belleville e il ciclo di Malaussène hanno attinto, tratto ispirazione o subìto l’influenza della Belleville di Romain Gary e del suo La vita davanti a sé?
(Piperitapitta)

No, la lettura di Roman Gary non ha inspirato la saga di Malaussène né la mia visione di Belleville, e nessuno dei miei personaggi deve qualcosa ai suoi. In compenso, Roman Gary mi ha aiutato in un altro modo: la scoperta di ciò che ha scritto con lo pseudonimo di Emile Ajar mi ha incoraggiato alla libertà di scrittura. Il passaggio dai romanzi di Gary a quelli di Ajar mi ha spinto alla ricerca di una scrittura più metaforica e inventiva. Insomma, il suo stile e la sua libertà sono stati uno stimolo che ha alimentato il mio desiderio di scrivere.

Non ti sei mai pentito di quel tuo decalogo del lettore, ormai eletto ad autodifesa di ogni lettore frettoloso e drammaticamente disimpegnato? (Paolo)

Non mi sono mai pentito dei dieci diritti del lettore e naturalmente non mi sento responsabile delle eventuali utilizzazioni distorte di quello che ho scritto. Certo, mi spiace quando il riconoscimento del sacrosanto diritto di non leggere viene volontariamente confuso con un consiglio a tenersi lontani dai libri. Ma non era certamente questo il mio intento, e chi ha letto con attenzione quel decalogo lo sa.

A proposito del decalogo, di quanti libri mediamente sospendi la lettura e fino a che pagina arrivi prima di decidere l’interruzione? (ancora Paolo)

Per quello che mi riguarda, mi capita molto spesso di sospendere la lettura di un libro che non mi soddisfa. In genere, mi bastano una trentina di pagine per rendermi conto che un romanzo non piace, ma a volte, prima di lasciarlo definitivamente, cerco di leggere un’altra decina di pagine a metà del libro e una decina alla fine. E’ così che la mia diagnosi diventa definitiva.

Credi ancora in quello che dicevi in Come un romanzo? (Regina)

Come un romanzo è il frutto di un’esperienza pedagogica durata vent’anni. E personalmente resto fedele a tale prospettiva pedagogica. Mi sembra che sia ancora valida, anche se probabilmente oggi l’attenzione per il piacere della lettura è più diffusa di quando scrissi il libro. Ciò naturalmente mi fa molto piacere, ma penso che ci sia ancora molto da fare. La battaglia per la lettura non è ancora finita.

Cosa pensi dei film tratti dai tuoi romanzi? (FarfintadiessereSani)

Non ho partecipato alla sceneggiatura dei due film tratti dai miei romanzi: Il paradiso degli orchi e La fata Carabina. Apprezzavo i due registi e li ho lasciati fare liberamente. Tuttavia, non sono molto convinto dei risultati, ma non perché loro abbiano lavorato male, anzi, sono stati fin troppo bravi. E’ piuttosto la natura dei miei romanzi che poco si presta ad essere trasferita sullo schermo. I romanzi di Malaussène sono libri metaforici. I due registi invece pensavano che fossero libri fatti d’immagini e quindi facilmente trasformabili in scene cinematografiche. In realtà, non è affatto così, perché la metafora è sempre sfuggente, funziona sulla pagina, ma molto più difficilmente sullo schermo.

Mi descriveresti l’insegnante ideale in cinque aggettivi? (Connie)

Un insegnante deve essere adulto, presente, paziente, curioso, fermo e benevolo.
Gli aggettivi sono sei, ma non importa: meglio abbondare.

Prendendo spunto dall’intervista nell’ultimo libro – L’amico scrittore, la conversazione con Fabio Gambaro – secondo te in cosa differisce lo scrittore dalla persona? (Cele Snicket)

A questa domanda credo che dovrebbe rispondere proprio Fabio Gambaro, che mi conosce bene sia come persona che come scrittore. Scherzando potrei dire che, una volta scritto un libro, quello che rimane sono solo i resti: i resti dello scrittore.

Cosa avresti voluto fare “da grande” se non fossi diventato insegnante e affermato scrittore? (Erica)

Se ne avessi avuto le capacità, mi sarebbe piaciuto fare il medico. Per l’altro l’ho detto anche alla fine dell’Amico scrittore, rispondendo a Fabio, ricordando quanto diceva Céline, per il quale l’uomo è cattivo, e quando è malato lo è ancor di più, motivo per cui bisogna curarlo.

Qual è il tuo rapporto con la musica?
(Filippo)

Il mio rapporto con la musica è quasi del tutto inesistente. Quando scrivo non ascolto nulla, dato che per concentrarmi ho bisogno di un silenzio assoluto. E più in generale, non ascolto quasi mai della musica. Quando sono nella mia casa sull’altopiano del Vercors, ascolto il canto degli uccelli. Quando sono a Parigi invece ascolto il rumore delle macchine e della città. Insomma, non sono per niente sensibile al fascino della musica. Di conseguenza, sono sempre alla ricerca del silenzio.

Ma torniamo a Malaussène: come se l’è cavata la sua famiglia con figli e nipoti adolescenti? (Lunabluxxx)

Per quanto riguarda i suoi figli e i suoi nipoti, per ora non posso dire niente. Probabilmente la risposta sarà nel mio prossimo romanzo. Amici lettori, abbiate pazienza…