C’è chi li porta fin da bambino e chi – pochissimi – non ne avranno mai bisogno. E poi chi invece li usa solo per leggere o per guidare. O chi li incontra con la mezza età. Sono gli occhiali da vista, strumento che ha una storia affascinante, raccontata più volte (ottima la Storia degli occhiali e occhiali nella storia di Luigi Pasquini, ad esempio) anche dagli addetti ai lavori come Zeiss e Luxottica.
Se, come sostiene la Zeiss, gli occhiali sono “la quinta invenzione più importante dall’invenzione della ruota e dalla scoperta del fuoco da parte dell’uomo“, c’è da chiedersi chi l’abbia fatta. La storia in realtà la conosciamo: parte dalla classicità per fare un lungo salto e arrivare a Venezia nel XII-XIII secolo. Ma vale la pena leggerla, con tutti i limiti e gli errori del suo tempo, da un tipo completamente diverso di narratore: un testimone di un’altra epoca.
Francesco Redi è stato un medico, naturalista e letterato del Rinascimento. Nato ad Arezzo il 18 febbraio 1626 e morto a Pisa il primo marzo 1697 (per sua volontà le sue spoglie riposano ad Arezzo, mentre dall’Ottocento una sua statua si può vedere nel cortile degli Uffizi a Firenze) Redi è il padre della parassitologia moderna e in generale della biologia sperimentale. Già membro dell’Accademia della Crusca, fu tra i fondatori dell’Accademia del Cimento (la prima associazione scientifica a utilizzare il metodo sperimentale galileiano in Europa: “cimento” si usava per intendere quel che oggi chiamiamo “esperimento”), fu tra le menti più acute del suo tempo e viene ricordato anche per un carattere piuttosto originale, seppur sempre guidato dalla passione per il metodo scientifico.
In un secolo in cui l’Accademia teneva unite le arti scientifiche con quelle umanistiche, Redi fu anche appassionato frequentatore dei circoli e conventicole di illustri mecenati e di attenti ricercatori. Proprio da uno di questi momenti arriva questa Lettera intorno all’invenzione degli occhiali scritta da Francesco, che merita di essere letta per trovare altre prospettive rispetto al modo di fare scienza di oggi, che passa attraverso tutte altre strade della nostra società.
Mi sovviene ch’io fui allora d’opinione costantissima che l’invenzione degli Occhiali fosse tutta moderna, e totalmente ignota agli antichi Ebrei, Greci, Latini ed Arabi: e che se pure, il che non ardirei d’affermare, a loro non fu ignota, ella poi per lungo tempo fu perduta, e poco prima dell’Anno 1300 fu di nuovo ritrovata e ristabilita: e mi sovviene altresì che promisi allora di dare a V. S. Illustrissima tutte quelle notizie, le quali, più per fortuna che per istudio, m’era venuto fatto di mettere insieme. Non soddisfeci mai, per le molte mie occupazioni, al mio impegno; anzi, avendo fatto giornalmente debito sopra debito, temo ora che ella cominci con rigidezza di creditore a strignermi daddovero, e, deposta la naturale soavità del suo genio, agramente mi rampogni, e cruccioso mi rimproveri con asprezza questo così poco civil fallimento di pagare. Onde, per non viver più in tanta contumacia, mi accingo ora al pagamento in questa Lettera, scrivendole che nella Libreria de’ Padri Domenicani del Convento di S. Caterina di Pisa si trova un’antica Cronaca latina manoscritta in cartapecora, la quale contiene molte cose avvenute in quel Vener. Convento, e comincia: Incipit Cronica Conventus S. K. Pi O. P. Prologus. In Toga, & c.