Giuseppe Culicchia ha una storia che è la fotografia di una fetta d’Italia: nato a Torino, è figlio di un barbiere siciliano e di un’operaia piemontese. Scoperto da Pier Vittorio Tondelli nel suo famoso progetto “Under 25“, con il suo primo romanzo Tutti giù per terra (1994) ha vinto sia il Premio Montblanc che quello Grinzane Cavour Esordienti. Negli anni novanta e primi duemila ha raccontato in un crescendo di rabbia e intensità le contraddizioni e i contrasti della giovane Generazione X, la prima a subire la globalizzazione, la precarizzazione del lavoro, la morte delle aspettative sociali. Parallelamente, ha portato avanti una attività di commentatore dalle pagine della Stampa di Torino, di organizzatore e direttore di attività culturali con il Salone del Libro, di traduttore (soprattutto di Bret Easton Ellis).
Oggi l’autore torna con un romanzo che non è un romanzo, bensì un saggio in forma di dizionario enciclopedico delle parole. Quelle parole che danno forma ai nostri pensieri: come si può infatti pensare qualcosa se non si hanno le parole per farlo? E come si trasforma quel che pensiamo a seconda delle parole che esistono per farlo?
E finsero felici e contenti – Dizionario delle nostre ipocrisie racconta questo: la finzione collettiva, l’ipocrisia delle parole che usiamo. La neolingua che cerca di trovare una risposta all’obsolescenza e all’inerente sessismo di parole antiche a cui però si trovano soluzioni surreali, come Genitore 1 e Genitore 2, gli “esuberi” che sostituiscono i lavoratori licenziati, e così via.
Un esempio? La voce “Trump”
L’ennesimo ‘nuovo Hitler’. Definirlo un ‘fascista’. Il sogno di tutti coloro che hanno l’indignazione in tasca. Come lui solo Salvini e, staccati di qualche lunghezza, Putin e Boris Johnson”