Anobii incontra l’autore: La repubblica del selfie di Marco Damilano

repubblicaselfie500h

La repubblica del selfie è il libro di Marco Damilano in finale al  Premio Estense “Piazza Nova”. Anobii sta seguendo da vicino questo premio e chi scriverà la miglior recensione al libro di Damilano sarà ospite per un weekend nella splendida Ferrara, a fine settembre, durante la giornata della cerimonia del premio, e potrà portare con sé un accompagnatore. Questo bel regalo è offerto alla community di Anobii dall’organizzazione del premio e consiste in pernottamento in hotel per la serata di sabato 26 settembre e la cena (o il pranzo).  Nel frattempo abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’autore del libro.

Il tuo libro fa ampio uso della migliore storiografia italiana, ma la scrittura non è accademica: non “dimostra” ma mostra. Come ha mantenuto l’equilibrio tra divulgazione e rigore storico?

Il mio è un libro di storia, la storia di settant’anni di Repubblica, scritto da un giornalista. Credo che i due linguaggi possano coincidere, lo hanno dimostrato grandi cronisti e testimoni del tempo oggi purtroppo un po’ dimenticati come Vittorio Gorresio. Sono appassionato di storia contemporanea e per qualche tempo, prima di fare il giornalista, ho anche pensato di diventare uno studioso, ma quando andavo in archivio a cercare qualche documento perdevo un sacco di tempo, mi lasciavo trasportare dalla curiosità per un personaggio, un incontro, un evento,da raccontare e non soltanto da analizzare. In comune la storia e il giornalismo hanno la passione per le persone, per la vita concreta dei grandi protagonisti o della gente comune. La storia insegna al giornalismo, spesso appiattito sul presente, che c’è sempre un contesto, un prima e un dopo. E il giornalismo può insegnare agli storici una scrittura non specialistica, in presa diretta. Si può avere in mano un documento e fargli prendere vita.

Chi era il tuo lettore immaginario, mentre scrivevi il libro?

Sicuramente pensavo a un ragazzo o una ragazza che degli anni Cinquanta o Settanta del nostro Paese sa poco o nulla. Ci sono interi capitoli della nostra storia dimenticati. Per esempio tutte le fasi di passaggio in cui le cose potevano cambiare. E personaggi spariti: Ferruccio Parri, Fanfani, lo stesso Moro prima del rapimento. Appena più fortunato Berlinguer. Ma anche ai padri e ai nonni, che forse questa storia non ce l’hanno raccontata abbastanza. Il mio non è un libro solo di politica, anche se considero la politica uno straordinario modo di conoscenza del Paese, le sue città, le regioni, il tessuto sociale. È una storia di padri e di figli. I padri della Repubblica che hanno fondato la democrazia. La meglio gioventù degli anni Sessanta che ha conquistato il benessere e i diritti e si è alla fine intestata la responsabilità del declino. I figli della Repubblica, i trentenni-quarantenni che oggi sono arrivati al potere. C’è un filo che ci lega perché si può raccontare la storia repubblicana anche così, come una saga familiare. Di patrimoni tramandati, di eredità contese e tradite.

Nel libro scrivi che “c’è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla Rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell’Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un’unica bandiera: l’Io”.
Non ti sembra un quadro un po’ impietoso? Non abbiamo più speranze come collettività?

La Repubblica dei partiti era il titolo del libro più importante dello storico Pietro Scoppola, che è stato il mio maestro, scritto nel 1991, alla vigilia di Tangentopoli. La Repubblica del Selfie è una citazione ed è una dedica segreta, per dire che in un quarto di secolo siamo passati dalle grandi organizzazioni collettive (i partiti in Italia non erano solo una scelta politica ma un’appartenenza totalizzante, un’identità) a una politica fondata sugli individui e sul loro storytelling personale. Dall’ideologia al narcisismo. Dal noi all’io. Non è necessariamente un’involuzione, va così in tutto l’Occidente. In Italia questo processo arriva però al termine di un lungo percorso, durato quarant’anni, che io chiamo gli anni del Vuoto. Con la maiuscola perché il Vuoto è il vero protagonista del mio libro. Ha divorato talenti, leadership, speranze, idee. La politica, l’economia, la cultura. L’Io arriva dopo, alla fine di questo percorso. E può rappresentare una paradossale speranza. Che dalla somma di tanti io possa rinascere una storia condivisa. Una nuova generazione. Una Ri-generazione. È possibile, a patto che la spinta individuale sappia incrociare un’ansia collettiva e non soltanto la propria ambizione.

Cosa ne pensi dello stato attuale del giornalismo italiano, così a disagio con gli strumenti della comunicazione digitale?

Per il giornalismo si pone lo stesso problema della politica. La rete e i social media hanno spezzato le categorie dello spazio e del tempo, i contenitori del vecchio giornalismo: il quotidiano del mattino, il tg della sera. Ciascuno di noi viaggia in partenza su una piattaforma, nel mio caso la carta stampata e un grande settimanale di informazione come L’Espresso, ma con i suoi scritti o con le sue parole rimbalza poi ovunque sganciato dalle gabbie con cui è stato pensato il giornale o fuori dal palinsesto della vecchia tv. Ogni firma e ogni voce viene giudicata nel mare magnum dell’informazione per la sua efficacia e credibilità, deve diventare un nodo della rete. Un cambiamento che può essere vissuto con timore, il disagio è reale perché tutti gli strumenti sono invecchiati in brevissimo tempo, non hanno più gran senso le burocrazie interne a giornali sempre più piccoli e il digitale permette a ciascuno di diventare un reporter della propria realtà. Ma è anche enorme la sfida di continuare con il proprio mestiere a raccontare e rappresentare la realtà, cioè a fare giornalismo.

Come trovi il rapporto tra giornalismo e politica, invece?

Ho cominciato a lavorare in piena era berlusconiana e il mondo del giornalismo politico, con qualche eccezione, si divideva tra filo-berlusconiani e anti-berlusconiani, come il mondo politico. Oggi siamo tutti più liberi perché sganciati da uno schieramento di partenza, ma c’è un rischio più insidioso, il conformismo, il prevalere di un’opinione media, tiepida e sostanzialmente governativa. L’idea che Renzi sia l’unico premier possibile, Salvini un barbaro e Grillo uno che vuole chiudere stampa e tv ci condiziona nei giudizi più di quanto vorremmo. Il secondo rischio è raccontare una realtà che non esiste più. Il potere della politica che si rivela impotenza. I privilegi dei parlamentari che visti da vicino sembrano piuttosto sfigati. L’accanirsi contro la casta dei politici dimenticando i veri poteri che contano: ad esempio le alte burocrazie europee che preparano quei documenti capaci di annichilire intere nazioni, come nel caso della Grecia. Rischiamo di diventare conformisti e di raccontare come House of cards ogni scontro di potere, dimenticando che li è in gioco la Casa Bianca, qui da noi, a volte, l’oggetto della contesa è il controllo di un consiglio comunale… Penso che in futuro racconteremo sempre di più questo dissolvimento della politica tradizionale per lasciare spazio a qualcosa di nuovo e ancora indefinito.